novità 16.06.2021
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Siamo Carichi : Donne e camion

Solo il 2% degli autisti professionisti sono donne. Come ci si sente a lavorare in un mondo ancora quasi esclusivamente maschile?

Come ci si sente ad essere una camionista donna in un mondo esclusivamente maschile

„Sono donna, mamma e camionista. Rigorosamente in quest’ordine”. Lei è Laura e si descrive così, se le chiedi di farlo.
A proposito di camion aggiunge: “compenso la mia piccola statura con i due metri di altezza del mio Volvo FM, perché nell’Fh non vedo fuori”.

Con il suo stile ironico e mai banale, nella serie “Siamo Carichi”, Laura ci racconta spaccati e momenti della sua vita di autista professionista.
In questo articolo, Laura ci parla proprio dell'essere donna in un mondo quasi esclusivamente ancora maschile, quello dell'autotrasporto.

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Il due per cento della totalità degli autisti è composto da donne. Un numero talmente piccolo da nascondersi tra la moltitudine di chi tutti i giorni si mette al volante.
Sarà per questo motivo che su di noi si raccontano tante storie narrate nel “foro boario” camionistico per eccellenza, punto strategico dove si decide il destino del popolo, al pari del Bar Sport per i pensionati: la saletta caffè. 

Quando ci siamo noi camioniste al centro della scena, i toni raggiungono enfasi degne di Mastrota durante la pubblicità dell’Eminflex e godono di trame avvincenti come quella di “Un Posto al Sole”. Competono in attenzione solo le vicende dell’unica vera star, il The Rock dell’autotrasporto, l’unico maschio in grado di essere più irresistibile di una donna: il 190/48.

La fantasia si scatena e l’immaginazione cerca di darci un volto: per alcuni siamo tutte tedesche bionde alte un metro e ottanta, praticamente delle pinte di birra all’Oktober Fest. Per chi invece preferisce le more, siamo come Serena Grandi in “Teresa”; che se fosse per lo stacco di coscia e il decolleté, ci sarebbe anche andato bene, ma - diciamolo - l’atteggiamento procace e volitivo lo abbiamo abbandonato dopo aver affrontato il rito di iniziazione per tutti i viaggiatori che si rispettino: il caffè dell’autogrill. 

Superato quello, sei arruolato. 

I camperos e i pantaloncini in jeans, abbinamento iconico dell’immaginario comune, cedono il posto a scarpe antinfortunistiche con la stessa linea delle pantofole coprigesso, la giacca taglia M da uomo e un giubbino ad alta visibilità che più che farci sembrare Lady Gaga, ci porta al paragone con Renato Zero in un’ospitata da Maria De Filippi... imitato da Panariello. Altri invece si aspettano di vedere al volante le lanciatrici di peso della DDR, alimentando così l’idea che femminilità e motori siano al pari dell’ananas sulla pizza. Si danno a pugni come Rocky Balboa e Apollo Creed.

Qualsiasi sia il nostro aspetto comunque, scateniamo negli uomini la stessa curiosità che provoca in noi sapere che il nostro ex ha una nuova fiamma. Facciamo di tutto per capire chi sia, che aspetto e, soprattutto, quanti anni abbia.

Voi uomini gestite decisamente meglio la vostra curiosità (non a caso si dica essere donna) ed evitate, con eleganza, di sembrare Sherlock Holmes alla ricerca di indizi. Alzate il mento, drizzate le spalle, vi date un colpetto alla maglietta e iniziate a camminare avanti e indietro con le mani raccolte dietro la schiena, cercando di essere il più indifferenti possibili e tenendo lo stesso atteggiamento sornione e fintamente disincantato di un pensionato davanti ad un cantiere, bisbigliando: “donne e cantieri, son sempre pensieri!”

Quando ci prepariamo per iniziare la manovra, tra voi la comunicazione passa da verbale a non verbale (sappiamo bene che troppe cose contemporaneamente non le sapete fare) affidandosi solo a gesti istintivi e primitivi, tra cui il rinomato il colpetto laterale con la testa che significa solo una cosa: “guarda là!”.
Ci aspettate al varco della ribalta lanciando, sulla buona riuscita della nostra manovra, più scommesse di un punto Snai, per riscattare il vostro orgoglio maschile e dimostrare che “le donne al volante sono un pericolo costante”. Generalmente, però, questo non accade e non è merito del fatto che ci dobbiamo impegnare il doppio per far notare che siamo brave almeno la metà, ma per la nostra innata qualità dell’aver sempre ragione. Quindi se qualche volta incappiamo in un errore, purtroppo la colpa sarà vostra che, fissandoci, ci avrete messo ansia.

Durante le fasi di scarico, se dobbiamo eseguirle noi, si raggiunge l’apice assoluto dei cliché. Le fazioni si dividono tra chi ci aiuta e chi invece porta in alto il vessillo del: “hai voluto la bicicletta, adesso pedali!”. Alla destra del ring quindi, i Don Abbondio della situazione, quelli del: “Questo matrimonio non s’ha da fare” perché è risaputo che il camionista non sia un lavoro da donne. Costoro sostengono la tesi in silenzio, il più delle volte, guardandoti con supponenza, lasciandoti scaricare da sola con un transpallet a mano arrugginito. Giustificandosi che quello elettrico e nuovo di zecca, casualmente nascosto dietro alla porta, sia incredibilmente e inspiegabilmente già rotto. 
Qualche volta, con un gesto di estrema magnanimità, proprio all’ultima pedana chiedono se, per caso, ti serve una mano. 

A me è addirittura capitato che una signora mi guardasse e mi chiedesse: “Scusa cara, dov’è tuo papà?”.
Ammetto che ci ho messo un po’ per capire che intendeva il camionista che doveva scaricare e che non mi ero caricata per sbaglio mio padre in cabina. Anche perché mio padre, mai e poi mai sarebbe salito in cabina con me; lui, classico borghese con la ventiquattrore e in giacca e cravatta, laureato in economia e commercio, al mio glorioso annuncio: “Finalmente ho deciso, vado a fare la camionista!”, ha sgranato gli occhi pronunciando laconico: ”Bene, dove posso buttarmi?”.

Tutti almeno una volta siamo caduti nel cliché che vuole il camionista rozzo, arrogante e magari anche trasandato. Mio padre sicuramente e persino io…. un tempo. Il lavoro del camionista ti obbliga ad avere uno stile di vita un po’ nomade, con notti via da casa e qualche pasto improvvisato in cabina. Nomade, nella nostra cultura è sempre visto con titubanza e diffidenza, di conseguenza lo è anche il camionista.Per questa accezione culturale, la donna, che per secoli era sempre stato fulcro della famiglia, stabile e ancorata insieme alla casa che da sempre la identifica, non poteva nemmeno essere immaginata nomade. Da qui l’idea che se qualcuno si voleva differenziare da questo ruolo un po’ sottomesso e antiquato di vivere la propria identità, scegliendo una strada diversa, autonoma e indipendente, seppur non tipicamente femminile, dovesse automaticamente rinunciare al suo essere donna, moglie e madre. 

“Non mi importa di vivere in un mondo di uomini, purché io possa viverci da donna” diceva Marylin Monroe e noi ne abbiamo fatto il nostro motto.

Abbiamo iniziato in poche, anzi pochissime a combattere gli stereotipi, a infilarci nel mondo maschile per eccellenza dei motori, senza mai voler dimostrare di essere meglio degli uomini o di volerci sostituire a loro. Semplicemente abbiamo colto l’opportunità di poter fare ciò che ci piaceva. Ricopriamo ruoli diversi, a seconda delle nostre esperienze e aspettative, ma tutte dimostriamo di poter essere all’altezza e di poter apportare competenze indispensabili alla crescita del settore. 

Il mondo è in evoluzione e si modifica molto più velocemente di quanto noi riusciamo ad assimilare il cambiamento.Le novità sono le cose più difficili da accettare per il nostro cervello che punta a preservare il senso di appartenenza e di identità, attraverso gli stessi meccanismi di difesa che si innescano quando percepisce una minaccia che potrebbe minare la sopravvivenza. Per abbattere un pregiudizio, quindi, ci vuole tempo, pazienza e un atteggiamento fluido perché le nuove idee possano essere accettate da tutti, raggiungendo così una reale inclusione.

#SiamoCarichi

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